Il caffè è una bevanda dalla storia affascinante e dalle virtù eccezionali, peccato che in Italia venga mortificato quotidianamente. Ne parliamo con l’esperta Valentina Palange, che ci regala anche qualche trucco per evitare trappole al bar
Sfatiamo un mito, quello del caffè italiano, caposaldo della nostra cultura, bevanda impareggiabile, che nessuno al mondo riesce a fare meglio di noi.
La realtà è decisamente più amara (in tutti i sensi) e non basterà un’intera bustina di zucchero per addolcirla: citando il titolo di uno dei bestseller dell’ultima stagione, “Il caffè in Italia fa schifo”.
Il caffè in Italia fa schifo: un viaggio tra consapevolezza, falsi miti e crudeli verità (Giacovelli Editore, 2025) è un saggio scritto da Valentina Palange, divulgatrice e content creator nota nel mondo del caffè come Specialty Pal. Al di là del titolo provocatorio, il libro è un’autorevole trattato che smonta i miti attorno al caffè italiano, soprattutto quello servito nei bar, spesso amaro, bruciato e frutto di pratiche poco trasparenti nella filiera. Presentata al Salone del Libro di Torino 2025, l’opera è andata esaurita rapidamente tra gli stand della fiera.
Il caffè è una bevanda dalla storia secolare e dalle ottime proprietà per la salute (se assunto con moderazione). Grazie a un’esperta come Valentina, che del suo amore per il caffè ha fatto un mestiere e della sua divulgazione ha fatto una missione, ci avviciniamo in modo più consapevole a questo affascinante mondo.
Perché, secondo te, gli italiani continuano a credere che il loro caffè sia il migliore del mondo, nonostante le evidenze contrarie?
“Perché fondamentalmente non si informano. Siccome il caffè espresso lo abbiamo inventato noi, siamo rimasti fermi a quell’dea, ma nel frattempo ci sono state tantissime evoluzioni. Soprattutto all’estero, perché partendo dalla nostra cultura hanno poi continuato a studiare. E così noi siamo rimasti indietro.
Lasciamelo dire, quando parliamo della nostra cultura noi italiani pecchiamo di saccenza. Pensiamo che il caffè sia una cosa nostra, invece non sappiamo che fondamentalmente il caffè non sarà mai nostro, il caffè è del mondo e ci sono tante culture molto diverse dalla nostra che raccontano il proprio legame con questa bevanda.
E poi il caffè non è un prodotto italiano. Anzi, viene proprio dai paesi tropicali”.
Quanto incidono i contratti vincolanti delle torrefazioni sulla scarsa qualità media del nostro caffè al bar?
“Come scrivo anche nel mio libro, il caffè in Italia fa schifo proprio a causa dei finanziamenti. Troppo spesso il focus non è la qualità del caffè, bensì i contratti che il titolare stabilisce con la grande torrefazione. Le torrefazioni diventano come delle banche, con loro il discorso è: tu ti prendi il mio caffè e io ti regalo tutto, la macchina del caffè, il macinacaffè, gli ombrelloni, il lavatazzine…
In realtà non si tratta di un regalo perché, pagando il caffè, il barista si sta pagando a rate tutto quello che la torrefazione gli fornisce, di certo non la qualità del caffè perché è scarsissima. In questo modo le grandi aziende triplicano il loro guadagno, anche perché fondamentalmente il titolare, così come il consumatore, non si chiede nulla sul caffè né tanto meno esige qualcosa di migliore”.
Abbiamo capito che la maggior parte del caffè che viene servito in Italia non è buono, possiamo invece segnalare degli esempi virtuosi?
“C’è da chiarire una cosa: l’Italia non produce caffè, semplicemente lo lavora: noi siamo il Paese delle torrefazioni. I produttori sono Paesi come Brasile, Vietnam, Colombia, Nicaragua, Honduras… Sono più di settanta.
In Italia ci sono delle torrefazioni veramente eccellenti. Si tratta di micro torrefazioni gestite da ragazzi che magari hanno fatto dei periodi di lavoro all’estero, poi sono tornati qua a e hanno continuato a lavorare avviando un loro business perché vogliono portare cultura. Molto spesso succede che sono più conosciuti all’estero rispetto al proprio Paese. Infatti queste piccole torrefazioni artigianali tostano caffè di alta qualità e lavorano molto con l’estero“.
Che cosa sono gli specialty coffee e che ne pensi? Li consideri una moda o una reale alternativa?
“Quasi nessuno lo sa, ma la definizione ‘specialty coffee’ è stata coniata negli anni Settanta da una donna norvegese, Erna Knutsen, che si riferiva a tipologie di caffè molto rare, che crescono in microclimi particolari ad altissime quote.
Gli specialty coffee stanno vivendo un’evoluzione molto importante in questo periodo storico. Parliamo di caffè di altissima qualità, che viene valutato dal punto di vista organolettico e sensoriale da parte di persone che hanno studiato per farlo, i Q grader, che sono per il caffè l’equivalente dei sommelier per il vino. I Q grader valutano il caffè e gli danno un punteggio: se questo raggiunge tra gli 80 e i 100 punti può fregiarsi del titolo di specialty coffe, che è sostanzialmente un caffè privo di difetti primari.
Lo specialty coffee ultimamente è considerato una vera e propria esperienza, perché rispetto al caffè commerciale ha una tracciabilità ben precisa, si sa il produttore, l’altitudine a cui è stato piantato, come è stato raccolto (quasi sempre a mano e quindi super selezionato), come è stato lavorato… Insomma, viene raccontata tutta la filiera dal produttore fino al barista, barista che ne diventa il portavoce davanti al consumatore (il quale può informarsi anche attraverso i dettagli puntualmente riportati sul pacchetto)”.
Quali segnali ci aiutano a distinguere un buon caffè da una “schifezza” al bar? Che regole d’oro daresti a chi vuole bere quotidianamente caffè di qualità senza farsi imbrogliare?
“Prima di tutto è fondamentale la pulizia, sia del bar in generale, che delle attrezzature. In particolare, la macchina espresso è pulita? La tramoggia (il contenitore a forma di cono che contiene i chicchi) è pulita oppure oleosa? Molto spesso le grandi aziende danno al titolare del bar le tramogge con il brand sopra, che vengono messe sul macinacaffè in maniera tale che non puoi vedere neanche più i chicchi del caffè. Questa è una cosa che a me non piace per niente: io che sono una persona che ama la trasparenza, quei chicchi devo vederli, in caso contrario vado via.
Altro elemento importantissimo è il flush, cioè il far passare un getto d’acqua calda tra un caffè e l’altro per eliminare residui e acqua stagnante dalla macchina. O ancora, la lancia a vapore (lo strumento per montare il latte e creare la schiuma per i cappuccini), nella maggior parte dei bar purtroppo è sempre sporca. Un caffè o un cappuccino fatto in quelle condizioni fa malissimo, non si dovrebbe bere.
E poi c’è quella che io chiamo ‘la prova del nove’: chiedere al barista informazioni sul caffè che serve. Se risponde con il brand del caffè, significa che dobbiamo scappare!”.
(Manuel Tartaglia)







